di Giacomo Braido – Dottore in Diritto per le Imprese e le istituzioni e collaboratore di Lexacivis
Il 1° settembre 2020 la guardia costiera libica è intervenuta al largo del golfo di Sirte, fermando i due pescherecci italiani, “Antartide” e “Medinea” e i 18 pescatori a bordo. Ne è sorto un delicato caso diplomatico per il Governo italiano: sono stati infatti accusati di aver violato le norme libiche in materia di sfruttamento delle risorse ittiche e di essere coinvolti in un traffico di sostanze stupefacenti, avendo operato in un’area marina su cui la Libia ha rivendicato la propria sovranità. La vicenda si è trasformata di fatto in prigionia per gli equipaggi che hanno trascorso 108 giorni presso le carceri di Bengasi, prima che l’esito delle trattative portate avanti dal Governo italiano con il generale Khalifa Haftar conducesse alla loro liberazione. Dopo grande clamore all’avvenimento dei fatti, l’evoluzione della controversia non ha forse avuto l’attenzione che meritava, complice uno sconcertante silenzio istituzionale, che ad alcuni ha costantemente suscitato non poche perplessità. Una timida richiesta è stata avanzata in seno al Consiglio europeo, per mezzo del quale è stato richiesto alle autorità libiche di rilasciare i pescatori italiani, nei confronti dei quali non era ancora stato intentato alcun procedimento finalizzato ad accertare le loro responsabilità. E, tuttavia, era giunta per mezzo di un portavoce del generale Haftar, nel contesto delle trattative, la richiesta di scarcerazione di 4 “scafisti”, condannati dal tribunale di Catania a 30 anni di reclusione perché coinvolti nei reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e nel naufragio che nel giorno di Ferragosto del 2015 costò la vita a 49 persone. Una richiesta di tale natura, che per certi aspetti è apparsa sicuramente molto più simile a un ricatto politico che a una forma di cooperazione internazionale in materia penale, fa percepire la delicatezza dell’intera vicenda.
È necessario considerare anche la complessità dello scacchiere geopolitico del Paese nordafricano che solo in questi ultimi mesi sta trovando una tanto agognata unità istituzionale. Sicuramente non ha contribuito a rendere più agevoli le operazioni diplomatiche la presenza sullo stesso territorio di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale, guidato dal Presidente Fayez al-Serraj e un governo insurrezionalista, che di fatto governava sulla regione della Cirenaica, guidato dal generale Haftar. Solo il 15 marzo scorso è avvenuto, infatti, il passaggio di consegne dal presidente uscente Serraj, a capo del governo di Accordo Nazionale riconosciuto dall’ONU, al nuovo Presidente del Consiglio presidenziale Mohammed al-Menfi, e al nuovo Primo ministro, Abdul Hamid Dbeibeh.
Abbiamo detto in precedenza che la vicenda è nata dall’attività nell’area marina su cui la Libia afferma la propria sovranità. È rilevante ora soffermarsi in primo luogo su quali siano i riferimenti normativi sul punto. La disciplina che troviamo a livello internazionale è contenuta nella Convenzione delle Nazione Unite per il diritto del mare del 1982, che in seguito chiameremo Convenzione UNCLOS, ratificata dall’Italia nel 1994, ma non dalla stessa Libia. La zona in cui si trovavano i pescatori italiani al momento della loro cattura era situata a circa 35 miglia nautiche da Bengasi (64,82 km), in un’area denominata come zona economica esclusiva (ZEE). Ora, la definizione che la Convenzione UNCLOS dà della zona economica esclusiva è di porzione di mare adiacente alle acque territoriali, la cui estensione può svilupparsi per 200 miglia nautiche (321,87 km) dalle linee di base da cui si calcola l’area del mare territoriale (Art 55 e ss. Convenzione UNCLOS). Più Stati possono avere interesse sulle medesime aree marine e per questo è necessario che dialoghino per la loro ripartizione: è la stessa Convenzione che, all’articolo 74, stabilisce che per l’effettiva sussistenza di una zona economica esclusiva è necessario che questa sia formalmente istituita da parte dello Stato costiero, di comune accordo tra gli Stati interessati, perché si giunga alla soluzione più equa. Dall’istituzione della ZEE discendono poi una serie di conseguenze di natura giuridica ed economica, tra cui i diritti in materia di sfruttamento delle risorse ittiche e minerarie, di ricerca scientifica e regolamentazione delle attività commerciali. A complicare l’intricato scacchiere geopolitico del Mediterraneo, il 19 ottobre 1973, la Libia, guidata al tempo dal Colonnello Mu’ammar Gheddafi, rivendicò unilateralmente l’area del golfo di Sirte, comprendendo distanze superiori al limite delle 12 miglia nautiche (22,2 km) dalla costa, stabilite dalla Convenzione in riferimento al mare territoriale. La Libia, cercando il riconoscimento della baia del golfo di Sirte come baia storica, aveva delimitato un’area entro i fondali di 200 metri, istituendo zona di protezione della pesca (ZPP) di 62 miglia oltre le acque territoriali. Successivamente, nel 2009, ha proclamato unilateralmente la zona economica esclusiva, sovrapponendola alla precedente ZPP.
Il risultato di queste molteplici operazioni è stata la chiusura del golfo di Sirte agli operatori esteri che esercitavano in quelle zone. Le pretese sul golfo di Sirte sovente accendono le attività diplomatiche tra gli stati costieri del mediterraneo. L’Italia non ha mai contestato le pretese libiche sul mare, anzi, ha cercato di adottare una serie di provvedimenti volti a esortare i pescatori italiani a tenersi lontani dalle acque contese, pur trattandosi di un’area assiduamente frequentata dagli operatori del settore. La situazione è infine degenerata in seguito alla caduta del governo di Gheddafi nel 2011.
La domanda a questo punto sorge spontanea: potevano le autorità libiche intervenire a bordo sottoponendo a fermo imbarcazioni ed equipaggi? Si tratta di capire, alla luce della situazione politica libica, quali siano le norme che vengono in rilievo in tali circostanze. Se consideriamo quanto contenuto all’interno della Convenzione UNCLOS, non è escluso che uno Stato costiero possa intervenire sulle imbarcazioni che si trovino nelle acque in cui esercita la sua autorità. Potrebbe avvenire, infatti, nei casi di violazione delle norme dello Stato costiero sullo sfruttamento delle risorse ittiche, oppure per contrastare il traffico di sostanze stupefacenti, gli atti di pirateria o il traffico di esseri umani. Ciò nonostante, è previsto l’obbligo di immediato rilascio delle navi e degli equipaggi previo conferimento di una garanzia di natura economica (Art. 292 Convenzione UNCLOS). Non viene meno la competenza dello Stato costiero a giudicare sugli illeciti commessi nelle acque di sua competenza, come nel caso che ha coinvolto i pescatori italiani. Tuttavia, nel caso di violazione dell’obbligo di pronto rilascio è prevista la possibilità di deferire la questione a un tribunale concordato tra le parti o, in assenza di accordo, nel termine di 10 giorni dal fermo, al Tribunale internazionale per il diritto del mare (Art. 287 UNCLOS).
Alla luce di queste considerazioni ci si può chiedere perché sia risultata oltremodo problematica la soluzione di questa controversia. Dobbiamo ricordare che l’efficacia di questa disposizione è irrimediabilmente legata alla ratifica del trattato che la sancisce. Come già anticipato, la Libia non avendo provveduto in tal senso non considera tali norme come vigenti. Farebbe, contrariamente, riferimento alle consuetudini internazionali che regolano le diverse fattispecie. Infatti, il problema diverrebbe affermare che le norme contenute all’interno della Convenzione UNCLOS siano considerabili oramai norme di diritto consuetudinario, ossia regole giuridiche che sorgono dalla diffusa reiterazione nella comunità internazionale di un comportamento che sia considerato giuridicamente vincolante. In quanto tali sarebbero vincolanti anche nei confronti dello Stato che non abbia ratificato alcun trattato. A stabilirlo, tuttavia, potrebbe essere solamente una corte internazionale cui venga attribuita la competenza a giudicare sulla controversia. Pertanto, si è giunti alla liberazione dei pescatori mediante attività diplomatica bilaterale. In ogni caso non si può considerare, come taluno ha fatto, che l’uso della forza militare potesse essere un fattore risolutivo della vicenda. Possiamo dire, invero, che l’uso della forza potrebbe configurarsi come extrema ratio qualora sia necessario contrastare atti coercitivi sproporzionati rispetto al fine perseguito, purché temporalmente coincidenti.
Possiamo quindi esprimere alcune riflessioni. È chiaro come lo sviluppo di questa vicenda sia stato influenzato enormemente dagli interessi politici dei due paesi. Tant’è vero che nemmeno è stato palesato l’accordo grazie al quale si è giunti alla liberazione dei pescatori. Tuttavia, la questione è stata poi rapidamente dimenticata dall’opinione pubblica e ora il problema si ripropone: a tre mesi dalla loro liberazione i pescatori di Mazara del Vallo hanno comunicato all’Assessorato per l’agricoltura della Regione Sicilia di voler riprendere l’attività di pesca nella zona libica, chiedendo il ripristino delle attività di protezione della Marina militare. Il Governo si è espresso sconsigliando tali attività poiché sussisterebbe ancora il rischio di sequestri e di lunghe detenzioni.
Sebbene sia auspicabile un intervento di ampia portata da parte dell’Unione Europea, per la stipulazione di un trattato, che abbia ad oggetto la regolamentazione della pesca tra gli Stati contendenti, sappiamo che questo non arriverà in tempi ragionevoli. Nulla vieta in ogni caso che siano prese, dalle associazioni di categoria, delle iniziative di natura privatistica in accordo con i corrispettivi enti libici, volte a garantire la continuazione della attività economiche che già si realizzavano in quelle aree di mare. Non meno rilevante è la necessità di riaffermare il ruolo della Convenzione UNCLOS e del Tribunale internazionale per il diritto del mare, con riferimento ai principi e alla tutela della libertà di navigazione e di pronto rilascio dei soggetti e delle imbarcazioni fermate in seguito alla commissione di illeciti. È chiaro che rispetto a qualsiasi iniziativa sarà necessario attendere che il nostro interlocutore mediterraneo, alla fine della guerra civile che ne ha sconvolto la società e le istituzioni, consolidi il suo nuovo assetto politico-istituzionale.