di Paolo Caroli – Postdoctoral Researcher presso la Humboldt-Universität zu Berlin
Prima dell’estate il Parlamento ha iniziato la discussione sul c.d. Ddl Zan, che mira a estendere le fattispecie di reato ex art. 604-bis c.p. (Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa) ai casi fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Un’analoga modifica è prevista per l’aggravante di discriminazione o odio etnico-razziale/nazionale/religioso ex art. 604-ter c.p. L’intervento mira quindi a parificare la violenza di matrice etnica, nazionale e religiosa a quella omofobica e transfobica, di cui la cronaca ci fornisce esempi costanti, spesso anche tragici (si pensi alla recente vicenda di Caivano). In questo senso, l’estensione dell’aggravante ex art. 604-ter è quella che più facilmente fa comprendere la necessità alla base della legge. Ad oggi, infatti, se un soggetto commette i reati di ingiuria, diffamazione, lesioni, omicidio etc. verso una persona in ragione del suo essere di colore o ebrea o di religione islamica, questi riceve una pena più elevata rispetto a chi compie lo stesso reato per una motivazione di tipo omofobico o transfobico.
Per comprendere invece meglio l’estensione dell’art. 604-bis c.p., può essere utile un breve resoconto della sua evoluzione. Tale disposizione è stata introdotta nel 1975, originariamente all’interno della Legge Reale, in attuazione alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni discriminazione razziale, adottata a New York dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1965. La disposizione è stata poi modificata dal d.l. 26 aprile 1993, n. 122 (c.d. Decreto Mancino), che ha anche introdotto l’aggravante che oggi si trova all’art. 604-ter c.p. Al momento della sua introduzione, l’Italia non conosceva immigrazione, né una società multietnica o multireligiosa; il reato era pertanto pensato in riferimento a pochi gruppi neofascisti o naziskin, la cui attività poteva costituire un turbamento dell’ordine pubblico. Un contesto sociale siffatto, unito al fatto che nel Codice Rocco i limiti alla manifestazione del pensiero si rinvengono nei delitti contro l’ordine pubblico e delitti contro la personalità dello Stato, ha portato inizialmente la giurisprudenza (nelle scarsissime pronunce al riguardo) a ritenere che interesse tutelato fosse l’ordine pubblico. Al mutare del contesto sociale, l’interpretazione giurisprudenziale si è evoluta. Oggi si considera che ad essere tutelata sia la dignità umana dei gruppi protetti. La svolta è avvenuta partire dal noto caso Tosi (Corte App. Venezia, 30.01.2007; Cass. III, n. 13234/2007), dove la Cassazione ha affermato che ad essere punito è anche il c.d. pensiero differenzialista, ossia quella forma di razzismo che non si basa su una concezione di superiorità biologica delle razze (oggi anacronistica anche all’interno del panorama razzista), bensì su una teoria dell’esclusione fondata sulle diversità culturali. Si punisce, cioè, anche il « razzismo implicito […] e il neorazzismo […] — inteso nelle due forme di razzismo — universalista (eterofobo) — fondato sulla negazione della comune identità e dunque, sul disprezzo per le forme culturali particolari a seconda di determinate scale di valori e — […] differenzialista (eterofilo) — fondato sulla negazione della comune umanità e, quindi, sull’assolutezza dell’identità e delle differenze razziali, etniche, culturali, nazionali del gruppo » (Trib. Verona, n. 2203/2004).
La prospettiva della tutela della dignità umana è stata in un certo senso avvallata anche dal legislatore, che nel 2018 ha spostato la disposizione – e l’aggravante del Decreto Mancino – all’interno del Codice penale, con la specifica collocazione fra i reati contro la persona e la creazione di una nuova Sezione I bis denominato Dei delitti contro l’eguaglianza. Qui l’eguaglianza non opera in funzione limitativa del diritto penale, a fine di contenimento dello stesso a garanzia della libertà, bensì essa richiede un intervento punitivo che pare finalizzato a garantire una partecipazione paritaria di tutti i cittadini alla vita della Repubblica. Il reato ex art. 604-bis c.p., dunque, si pone come diretta attuazione dell’art. 3 della Costituzione e va a sanzionare quella propaganda, incitazione all’odio etc.. contro il diverso, che mira a negare l’eguale dignità umana dell’altro in ragione della sua diversità. In quest’ottica, è evidente la discriminazione operata dalla norma, nel momento in cui essa si limita a tutelare l’eguale dignità dei diversi in ragione dell’appartenenza a un gruppo etnico, nazionale o religioso, ma non di chi è diverso in quanto donna, in quanto omosessuale, in quanto transessuale. Le statistiche di hate speech e hate crimes, infatti, vedono al primo posto donne e perone Lgbti+. L’estensione proposta dal Ddl Zan, dunque, troverebbe una copertura nell’art. 3 Cost. Anzi, andando oltre, probabilmente la conseguenza di una piena tutela dell’eguaglianza sarebbe l’eliminazione in toto di un elenco tassativo, essendo sufficiente il riferimento, da un lato, al concetto di discriminazione e, dall’altro, alla negazione della dignità umana. L’estensione proposta dal Ddl Zan, inoltre, porrebbe l’Italia in linea con il quadro europeo.
Ciò detto, si potrebbe poi discutere in generale sull’adeguatezza dell’art. 604-bis c.p. quale mezzo di contrasto alla parola odiosa (c.d. hate speech), andando in particolare a chiedersi se il diritto penale sia lo strumento migliore per combattere questi fenomeni o se non rischi, all’opposto, di trasformare chi odia in un eroe o martire della libertà di espressione. E’ poi interessante interrogarsi sul ruolo e i rischi del diritto penale come (solo?) garante dell’etica pubblica. E’ evidente, infine, che il fenomeno impone di confrontarsi con lo strumento dove l’hate speech ha luogo quotidianamente a livello massivo: i social network. E’ proprio ai social che si riferisce ormai la quasi totalità delle applicazioni giurisprudenziali dei reati di cui discutiamo. Si tratta di un fenomeno che tutti i Paesi, in maniera diversa, stanno cercando di affrontare. L’hate speech, le fake news etc. sono vari volti di un tema centrale per la nostra società: come regolare l’uso della parola pubblica che i social network hanno reso possibile e a accessibile a ciascuno di noi, senza filtri e intermediazioni? Se tutti dichiarano la necessità di intervenire, le soluzioni messe in campo (si vedano ad esempio i casi di Germania, Francia, Singapore) sono molto diverse, ora con ora senza il coinvolgimento del diritto penale. I problemi tuttavia sono molti e sono sia di tipo dogmatico, che pratico (si pensi solo alla quantità quotidiana dei messaggi di odio o alla velocità dei social, contrapposta alla lentezza della giustizia penale). Il tema è amplissimo e non può essere qui discusso. Ci si limita tuttavia a evidenziare come le risposte, qualsiasi esse siano, non potranno essere solo giuridiche; non può essere il diritto penale, strumento di extrema ratio, a trasformare la società; si richiedono prima di tutto risposte sociali, culturali, politiche.