di Fabio Anselmi – Studente di Giurisprudenza e collaboratore di Lexacivis
Grazie all’affermazione di una forma di Stato socialdemocratica e al rafforzamento della posizione sostanziale del cittadino nei confronti dello Stato-apparato, nonché ai processi di integrazione europea, il rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione non può più essere considerato in senso meramente autoritativo e paternalistico, di fatti, nel corso degli ultimi decenni, si è sempre più fatto riferimento ad una concezione di PA al servizio del cittadino. Utilizzando questa nuova lente di lettura del rapporto cittadino-PA, la trasparenza dell’attività di quest’ultima appare fin dal primo sguardo come una condizione irrinunciabile. Essa è uno strumento per garantire le libertà individuali e collettive, per l’esercizio dei diritti civili e politici, e concorre alla realizzazione di un’amministrazione aperta e collaborativa. In forza di questa nuova concezione delineatasi, il legislatore ha emanato il D.lgs. n. 33/2013, c.d. Decreto Trasparenza, disciplinante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione in capo alla PA, la cui ratio si rinviene per l’appunto nell’esigenza di garantire ai cittadini un’accessibilità totale alle informazioni concernenti l’attività dell’amministrazione pubblica.
Iniziando a calarsi nel caso di specie, è proprio sulla base di questa normativa che la Fondazione Einaudi (attraverso gli avvocati Rocco Mauro Todero, Vincenzo Palumbo e Andrea Pruiti Ciarello) chiedeva al Dipartimento della Protezione Civile e alla Presidenza del Consiglio dei Ministri l’esibizione dei Verbali del Comitato Tecnico Scientifico, richiamati come uno dei presupposti dei tanto discussi DDPCM, emessi rispettivamente in data 1 marzo 2020, 8 marzo 2020, 1 aprile 2020 e 10 aprile 2020. Ancor più nel particolare, l’istanza di esibizione si fondava sull’istituto dell’accesso civico generalizzato, ai sensi dell’art. 5 comma 2 del Decreto Trasparenza, il quale consente a chiunque di accedere a dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
La ragione essenziale che ha spinto la Fondazione nel richiedere tali verbali è sicuramente il diritto di poter conoscere in base a quali motivazioni il governo ha così fortemente compresso le libertà costituzionali dei cittadini. Ad opinione della Fondazione, in ragione del fatto che tali verbali hanno rappresentato il supporto tecnico per provvedimenti che hanno ridotto al minimo l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite come, tra le altre, la libertà di movimento, di riunione, d’impresa e di culto, l’impossibilità per i cittadini di conoscerne il contenuto rappresenterebbe un vulnus all’interno del meccanismo di controllo politico-democratico. In effetti, a ben vedere, il diritto per i cittadini di conoscere le ragioni dell’agire amministrativo, attraverso l’esercizio di un controllo diffuso sul perseguimento degli scopi istituzionali, costituisce un bene di cruciale importanza per la partecipazione al dibattito pubblico e uno strumento necessario per giudicare le scelte politiche dei propri governanti.
Nonostante la valide ragioni poste a fondamento della richiesta di esibizione, il Dipartimento della Protezione Civile rigettava la domanda di accesso, asserendo che i citati verbali sarebbero sottratti all’istituto dell’accesso civico generalizzato ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 5-bis comma 3 del D.lgs. n. 33/2013 con l’art. 24 comma 1 della L. n. 241/1990 (legge sul procedimento amministrativo). La Protezione Civile nello specifico fondava il proprio rigetto sulla base della qualificazione dei DDPCM come atti normativi, invocando l’applicazione della lett. c) della 241 del ‘90 che esclude il diritto di accesso documentale “nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che regolano la formazione”.
Gli avvocati della Fondazione Einaudi impugnavano perciò innanzi al T.A.R. Lazio, con ricorso ritualmente notificato e depositato in data 8 giugno 2020, il diniego opposto dal Dipartimento della Protezione civile all’istanza di accesso civico generalizzato, deducendone l’illegittimità sotto plurimi profili. Le motivazioni principali poste a fondamento del ricorso sono principalmente 2:
1. Secondo i ricorrenti i DDPCM non hanno natura di atti normativi né di atti amministrativi generali. Quindi sarebbero sottratti dall’applicazione dell’esclusione del diritto di accesso civico a norma dell’art. 24 comma 1 della L. n. 241/1990;
2. I ricorrenti sostengono altresì che la mancata conoscenza di quei verbali inciderebbe sulla possibilità di esercizio del diritto di difesa e ostacolerebbe quel circuito intercorrente tra sovranità e democrazia che consente il controllo politico-democratico da parte dei cittadini in relazione all’operato della PA.
La decisione del T.A.R. Lazio sul ricorso, che giunge con la sentenza n. 8615/2020 datata 22 luglio, accoglie in pieno le tesi dei ricorrenti, ordinando all’amministrazione di consentire l’accesso ai verbali richiesti mediante l’esibizione e il rilascio. Innanzitutto, si legge nelle motivazioni della sentenza, il Collegio chiarisce che non possa attribuirsi a tali DDPCM la qualifica di atti normativi, in quanto “privi del requisito dell’astrattezza e della capacità di innovare l’ordinamento giuridico”. Né può ritenersi, prosegue, che si tratti di atti amministrativi generali, anch’essi sottratti alla disciplina dell’art. 24 comma 1, in quanto, pur condividendone la caratteristica della generalità dei destinatari, la “legge assicura a questi forme particolari di pubblicità e trasparenza”.
Arrivando a chiarire come si debbano giustamente qualificare, il Collegio afferma che vada innanzitutto evidenziata la peculiare atipicità dei DDPCM in argomento. Atipicità che li accomuna alle ordinanze contingibili e urgenti (ordinanze c.d. extra ordinem, il cui contenuto non può essere determinato a priori dal legislatore poiché dirette a contrastare fenomeni gravi e imprevedibili) poiché anch’esse dotate di una capacità derogatoria dell’ordinamento giuridico sulla scorta di presupposti assolutamente eccezionali
Il T.A.R. chiarisce che la possibilità di utilizzo, in via assolutamente residuale, dello strumento del DPCM, data l’inevitabile compressione di diritti e libertà con mezzi diversi da quelli già previsti dalla legge, impone il rigoroso rispetto di precisi presupposti, la cui esistenza dev’essere accuratamente verificata,“non giustificandosi, altrimenti, la deviazione dal principio di tipicità”. Chiudendo il cerchio sul punto, il collegio conclude affermando che il potere sui generis di emanazione di tali atti atipici di necessità ed urgenza è determinato, sulla scorta di quanto previsto dai DD.LL. n. 6/2020, n. 19/2020 e n. 33/2020, dalla “ peculiare rilevanza sociale, il rilevante impatto sulla collettività e sui territori e, soprattutto, la necessità di contemperare la tutela dell’interesse pubblico e del diritto alla salute con altri delicati interessi pubblici in gioco”.
Dunque, in sintesi, il T.A.R. ha ritenuto che i DDPCM in questione abbiano la natura di atti atipici sostanzialmente ascrivibili al novero delle ordinanze urgenti, con la conseguenza che il diniego di accesso agli atti endo-procedimentali, fondato sul combinato disposto di cui all’art. 5-bis comma 3 del D.lgs. n.33/2013 con l’art. 24 comma 1 della L. n. 241/1990, non fosse legittimo.
Le motivazioni del collegio non si limitano tuttavia a trattare della qualificazione giuridica, ma vanno al di là, abbracciando anche la stessa ratio della disciplina sull’accesso documentale. Infatti il Tribunale, per corroborare il proprio ragionamento, evidenzia che l’intera normativa sulla trasparenza impone di ritenere che “se l’ordinamento giuridico riconosce, ormai, la più ampia trasparenza alla conoscibilità anche di tutti gli atti presupposti all’adozione di provvedimenti caratterizzati da un ben minore impatto sociale, a maggior ragione deve essere consentito l’accesso ad atti, come i verbali in esame, che indicano i presupposti fattuali per l’adozione dei descritti DDPCM, che si connotano per un particolare impatto sociale”. Attraverso questa valutazione di carattere sistematico, il Tribunale non si limita più a giustificare la propria decisione sulla sola base di un dato formale com’è la qualificazione giuridica dei DDPCM in questione, ma lascia aperta la porta ad una valutazione nel merito riguardante l’impatto sociale del contenuto degli stessi.
Da quest’ultima considerazione si può dedurre una conseguenza conclusiva importante. Il collegio lascia intendere che, al di là della qualificazione formale, al fine di valutare la legittimità del diniego di esibizione, occorre altresì operare un bilanciamento, mettendo su un piatto della bilancia l’interesse dei cittadini a sapere le ragioni in base alle quali essi si vedono comprimere i loro diritti e le loro libertà, e sull’altro piatto le esigenze oggettive di segretezza e riservatezza dell’azione amministrativa. Infatti, lo stesso art. 5-bis del D.lgs. n. 33/2013, contenente i limiti all’accesso civico, elenca al primo comma una serie di interessi pubblici (tra cui la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la difesa, etc.) in ragione dei quali, ove si prospettasse un pregiudizio concreto, l’accesso documentale possa essere legittimamente escluso.
Pertanto, alla luce del ragionamento del T.A.R. Lazio, non si deve trarre l’errata conclusione di sostenere che laddove vi sia una frustrazione delle libertà costituzionali sia riconosciuto necessariamente un diritto alla conoscenza degli atti amministrativi , neppure nel caso di specie, dove la compressione dei diritti e delle libertà costituzionalmente sanciti è stata così frustrante. È più giusto invece affermare che nei casi in cui la questione non si risolva, come avviene sostanzialmente nel caso di specie, nella mera qualificazione formale degli atti oggetto di accesso documentale, il giudice è chiamato ad operare un bilanciamento, valutando se le esigenze di segretezza e riservatezza dell’azione amministrativa, presidio di altri e prevalenti interessi pubblici, siano tali da poter ritenere recessivo l’interesse alla trasparenza.