DAL BLOCCO ALLO SBLOCCO DEI LICENZIAMENTI

di Marina Brollo – Professoressa di diritto del lavoro nell’Università di Udine

Voglio segnalare un paradosso che surriscalda l’attuale clima politico-sindacale. Con i primi segnali di superamento dell’emergenza sanitaria (grazie alla campagna vaccinale), di ripresa dell’economia italiana, della produzione industriale e della fiducia, nel mondo del lavoro si prospettano misure di ritorno alla normalità che preoccupano e alimentano tensioni.

Come noto, l’attuale dibattito è polarizzato dal contrasto tra blocco e sblocco del divieto di licenziamenti, al punto da mobilitare presidi di protesta, la pressione dei sindacati per il mantenimento del blocco e la forte resistenza di Confindustria, nonché inedite distanze anche fra i partiti della maggioranza.  Come al solito, il totem dei licenziamenti fa innalzare barricate ideologiche trasformandolo in un tabù.

Anche sul piano giuridico, la questione è molto complessa e delicata per l’alto valore simbolico, quasi sacro e inviolabile, del potere dell’imprenditore/datore di licenziare. E, di conseguenza, delle regole legali che prevedono limiti o vincoli al suo esercizio, come riconosciuto dallo stesso articolo 41 della nostra Costituzione, a partire dal principio di dignità della persona che lavora.

A seguito dell’emergenza sanitaria, il legislatore – a partire dal decreto “Cura Italia” (n. 18/2020) – ha previsto un divieto di effettuare licenziamenti, individuali e collettivi, per un generico giustificato motivo oggettivo (non soltanto a causa del Covid-19). Cioè ha previsto un vero e proprio blocco dei licenziamenti per motivi economici. Con un progressivo slittamento in avanti del termine di scadenza del divieto: dalla scorsa primavera è stato prorogato più volte fino a ridosso di questa estate (30 giugno 2021, secondo l’articolo 40 del decreto n. 73/2021, Sostegni bis); per un totale di oltre 15 mesi.

Come ben noto, il blocco dei licenziamenti è una misura eccezionale nella storia italiana (e anomala nel panorama europeo) e quindi emblematica della gravità storica dell’emergenza. L’unico precedente nostrano, è quello del periodo post-bellico (decreto del 1945, per 8 mesi), che ha alimentato la narrazione del Covid-19 come periodo di guerra e del blocco come di una misura di guerra.

Il diritto pandemico ha permesso un inedito scambio tra divieto di licenziamento a tutela del posto dei lavoratori e Cassa integrazione guadagni a zero ore e gratuita per i datori, con un massiccio intervento dello Stato per finanziare gli ammortizzatori sociali, con trasferimenti pubblici a famiglie e imprese che hanno raggiunto livelli imponenti.

Da qui un blocco dei licenziamenti che, di fatto, implicitamente frena anche le assunzioni a tempo indeterminato e determinato, con una sospensione (a scadenza) degli effetti negativi della pandemia, pagata a caro prezzo pur di proteggere contro la sofferenza sociale. Inoltre va registrata una (comprensibile) forte flessione della natalità delle imprese.

Ma è stato un blocco totale dei licenziamenti? No, dato che sono possibili licenziamenti disciplinari e di altri tipi di recessi (per es. cessazione definitiva dell’attività di impresa,  accordo collettivo su incentivi alla risoluzione del rapporto di lavoro, ecc.), via via aumentati da una proroga all’altra, fino alla definizione di un sistema “a doppio binario” di vigenza di tale divieto.

Di più, il divieto di licenziamento ha riguardato (e riguarda) soltanto i rapporti di lavoro stabili, cioè i soli dipendenti a tempo indeterminato, in un mercato del lavoro, come quello italiano, fortemente “duale” tra insiders e outsiders.

Secondo una recente analisi, congiunta e autorevole, del Ministero del lavoro e della Banca d’Italia, a seguito del blocco, il numero medio dei licenziamenti complessivi si sarebbe soltanto dimezzato rispetto ad una situazione normale. Stando alle comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro, nel 2020, ci sono stati circa 550 mila licenziamenti contro i 900 mila del 2019. I licenziamenti “invisibili” di lavoratori non standard sono tanti e confermano che il virus moltiplica le diseguaglianze esistenti. Il dibattito su blocco/sblocco dei licenziamenti per tutelare in modo effettivo le persone che lavorano non  può ignorare questi dati e pericoli.

Il blocco dei licenziamenti, quindi, non ha protetto i (tanti) lavoratori (sempre dipendenti, ma) temporanei (a termine, somministrati, a chiamata, stagionali, ecc.). Pertanto, le fasce più deboli del mercato del lavoro subordinato – giovani e donne, la cui presenza è elevata nei comparti dei servizi più coltivi dalla crisi – sono rimasti senza protezione sociale. Per non parlare dei lavoratori autonomi, finti o veri, delle partite Iva, dei tirocinanti, ecc.

A conti fatti, il calo occupazionale italiano (parametrato sul crollo del PIL) è risultato maggiore di quelli di Germania e Francia che formalmente non hanno vietato i licenziamenti. Da qui un richiamo della Commissione europea a rivedere la politica del blocco quale misura che avvantaggia per lo più gli “insiders” e che potrebbe addirittura rivelarsi controproducente, specie per i più svantaggiati, se mantenuta troppo a lungo.

Nell’attuale fase di riapertura, in cui si allentano i provvedimenti restrittivi della libertà delle persone, il Governo, con una misura altrettanto simbolica, ri-espande la libertà del datore di decidere le dimensioni aziendali.

La normativa per “Imprese, Lavoro, Professioni” (il cit. decreto Sostegni bis, n. 73/2021) inizia a rimuovere – senza i dubbi interpretativi del precedente decreto Sostegni (n. 41/2021)– il blocco dei licenziamenti, nella convinzione che con il ripartenza la questione principale riguarderà le condizioni per facilitare il reimpiego dei lavoratori occupati nelle attività destinate a ridimensionarsi.

Lo sblocco del licenziamento viene predisposto con una mediazione, con un ritorno progressivo alle regole ordinarie, rendendo il divieto più flessibile e selettivo, ma soltanto per le imprese industriali e edili. Dal primo luglio, queste potranno scegliere se licenziare o no. Con la permanenza di incentivi economici per chi non licenzia (CIG gratuita, senza addizionali ex art. 5, d. lgs. n. 148/2015). Per i servizi, invece, data la loro debolezza, il blocco dei licenziamenti permane fino a fine ottobre. Da qui, il citato sistema “a doppio binario”: di sblocco e di permanenza del divieto di licenziamento per ragioni oggettive.

Il cauto dosaggio lascia intendere che il Governo vuole disegnare un meccanismo (graduale) di maggiore flessibilità del mercato del lavoro per responsabilizzare e infondere fiducia agli imprenditori in prima linea per il cambiamento dell’economia.

Se lo sblocco può significare un passo avanti per il ritorno alla normalità, non è facile prevederne l’impatto, anche se le difficoltà occupazionali di alcuni comparti sono ben intuibili (tessili, moda, …). E qui risorge la preoccupazione sociale.

La regola dello sblocco (parziale) dei licenziamenti dal 1° luglio è racchiusa in un decreto legge governativo ed è ovvio che, in sede di conversione, potrebbe essere modificata in Parlamento, forse nel senso di mantenere la proroga del blocco (selettivo, quindi soltanto) per i settori ancora in crisi, oltre ai (già previsti) servizi. Se, dal punto di vista tecnico, fosse troppo tardi per l’emendamento di una nuova regola operativa dal 1° luglio, si potrebbe procedere con una norma che, in “via reatroattiva”, copra il vuoto normativo. Nel diritto emergenziale, la proroga fuori tempo massimo  è stata già applicata in numerose ipotesi.

Nel contempo, in ogni caso, il Ministro Orlando, per cogliere l’opportunità della ripresa e di progressiva uscita dalle misure emergenziali, dovrà coniugare lo sblocco dei licenziamenti con percorsi di accompagnamento dei lavoratori e delle lavoratrici per fronteggiare le trasformazioni del mercato del lavoro.

Misure, queste, che, per un verso, dovranno mantenere il sostegno a chi perde il lavoro correggendo le debolezze e le distorsioni del sistema attuale, per altro verso, rafforzando la formazione e le competenze dei lavoratori, anche nell’uso delle nuove tecnologie.

Ed è su questo fronte, delle politiche passive del lavoro intrecciate con quelle attive, che si gioca la scommessa di un nuovo modello di sviluppo inclusivo e sostenibile, come indicato dall’Agenda ONU 2030, con i suoi tre pilastri sociale, economico e ambientale.

Il paradosso segnalato ci insegna, quindi, che (anche) il giurista non può fermare all’analisi “alta” del dato metodologico-formale, ma deve indagare, con un approccio pragmatico, pure il contesto, cioè la cruda realtà dei luoghi di lavoro per imparare a ripensare un diritto del lavoro sostenibile in una prospettiva europea.

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