I CENTRI ANTIVIOLENZA: IL GRIDO CHE LO STATO NON VUOLE ASCOLTARE

di Irene Vendrame – Dottoressa in Philosophy, International and Economic Studies e vicedirettrice marketing

A seconda di come la si guardi, la nascita dei centri antiviolenza in Italia può risultare o come un esempio ben riuscito di democrazia partecipativa o come un intollerabile sintomo dell’assenza dello Stato all’interno della questione della violenza di genere.

Al contrario di quanto si possa pensare in prima battuta, infatti, i centri antiviolenza non sono nati come strutture pubbliche a seguito dell’intervento di un governo impegnato ad arginare il fenomeno della violenza di genere, bensì dalla mobilitazione della società civile. La prima struttura di questo tipo è sorta a Bologna nel 1990, frutto dell’opera di Grazia Negrini, femminista e attivista, la quale intendeva creare uno spazio che potesse fornire assistenza alle donne che avevano subito maltrattamenti e ai loro figli.

Si trattava di dare vita ad un ambiente dove, insieme alle ferite e ai traumi provocati dalle violenze, si potesse sanare lo squilibrio di potere tra i sessi: per farlo era necessario cominciare dal personale di questi centri, che doveva essere composto interamente al femminile.

Le donne, infatti, dovevano uscire dal ruolo di vittima che veniva loro assegnato, non solo nelle relazioni malate, ma in generale all’interno della società e, per far questo, urgeva ripartire dall’azione, che permetteva loro di riappropriarsi del potere a loro sottratto. Il motivo femminista – in particolare della corrente del femminismo della differenza – è rimasto nell’anima di queste realtà, tanto che compare prima nella Carta della Rete Nazionale dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne del 2006 ed in seguito nello Statuto delle Donne in Rete contro la violenza del 2008. Questi documenti vengono sottoscritti da varie organizzazioni sorte durante gli anni Novanta e Duemila in diverse parti d’Italia, che si sono riunite a Roma nel tentativo di formare un tessuto unitario ed organico contro la violenza di genere. In questo contesto sono stati stabiliti gli obbiettivi e la direzione comune a tutte queste strutture, nonché i vari ambiti di azione di cui esse si fanno carico.

Le operatrici di questi centri si occupano di violenza intra- ed extra-familiare, nonché di violenza assistita – ovvero di quei minori che non sono vittime in prima persona, ma che si sono ritrovati coinvolti in situazioni violente. Forniscono assistenza diretta e telefonica e gestiscono l’ospitalità di donne e bambini nelle case rifugio, creando progetti individuali di emancipazione, che siano in accordo con le esigenze personali di ognuna, rispettando le differenze culturali e mantenendo imprescindibilmente l’anonimato e la segretezza. L’attività dei centri si espande poi alla promozione della ricerca e della formazione in tema di violenza domestica, con l’intento di costituire una spinta per lo sviluppo di politiche pubbliche concrete ed efficaci e sensibilizzare l’opinione pubblica.

La nascita “dal basso” dei centri antiviolenza è dovuta anche alla mancanza d’azione dello Stato italiano, che fino a poco tempo fa ha trattato il problema come una questione marginale. A livello legislativo solo recentemente sono stati messi in atto degli interventi concreti. Il primo è la legge n. 33 del 23 aprile 2009, che prevede l’apertura del numero verde 1522 attivo 24 ore su 24 a cui possono rivolgersi le vittime di violenza e stalking, che vengono eventualmente messe in contatto proprio con un centro antiviolenza. L’altro provvedimento è costituito dallo stanziamento di fondi finalizzati a questi centri, previsto dal Piano strategico nazionale contro la violenza sulle donne 2017 – 2020, avvenuto solo nel 2019, dopo l’approvazione del relativo Piano operativo. In questo caso la spinta all’azione è arrivata dal contesto internazionale, in particolare dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge n. 77 del 27 giugno 2013, che prevedeva appunto la presenza di strutture adeguate all’accoglienza e all’assistenza delle vittime di maltrattamenti (art. da 21 a 26).

L’aspetto evidentemente più problematico è l’approccio passivo che lo Stato ha avuto fin’ora rispetto al problema della violenza domestica in generale e rispetto alla governance dei centri antiviolenza in particolare. In primo luogo, questo ha impedito di organizzare in maniera organica i centri e di fornire equamente e adeguatamente il servizio sul territorio nella sua interezza, dal momento che un’organizzazione a livello istituzionale non esiste. Inoltre, ha fatto sì che anche quei pochi provvedimenti legislativi che sono stati adottati, venissero attuati con eccessiva ed ingiustificata lentezza, rendendo l’erogazione delle risorse discontinua e tutt’alto che pronta alle esigenze reali di queste strutture.

Gli stessi problemi sono stati rilevati da Actionaid, che ha svolto uno studio sul sistema antiviolenza in Italia, in particolare durante l’anno 2020. Secondo l’associazione è di vitale importanza che la questione della violenza di genere e della gestione dei centri antiviolenza diventi una priorità sull’agenda di governo e non solo un tema relegato all’interesse del Dipartimento delle Pari Opportunità (DPO). Solo così sarà possibile ottenere un maggiore coordinamento del sistema antiviolenza a livello istituzionale e nazionale, in grado di offrire un servizio efficacie ed accessibile a tutti. In più, oltre ad aumentare la consistenza delle risorse destinate alla lotta alla violenza, che risultano ancora insufficienti a fronte delle necessità reali, è indispensabile che ci sia trasparenza e costanza nell’assegnazione dei fondi, sia da parte del DPO verso le regioni, sia da parte delle regioni stesse in direzione delle realtà sul territorio. Dall’informativa risulta infatti che i criteri di assegnazione a livello regionale non sono omogenei e che il denaro stanziato dalle regioni per gli anni scorsi non è stato interamente distribuito.

L’urgenza di fornire un sostegno maggiore ai centri antiviolenza e di occuparsi davvero del problema della violenza di genere nel nostro Paese è diventata lampante nell’ultimo periodo, palesata anche a causa della pandemia di Covid-19. Pochi giorni dopo la presentazione al Consiglio dei ministri del nuovo Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, celebriamo questa giornata con l’amaro in bocca di chi sa che si sarebbe potuto fare di più, ma anche con la speranza che una nuova consapevolezza ci possa portare verso un vero cambiamento.

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