ANTITRUST E TUTELA DELLA CONCORRENZA: IL CASO AMERICAN TOBACCO COMPANY

di Leonardo Pietro Cervesato – Dottore in ingegneria gestionale e redattore di Lexacivis

La nostra società, se analizzata dal punto di vista macroeconomico, si suddivide in due principali categorie: i consumatori e le imprese. Nell’agire ed interagire con un mercato, l’obiettivo di un qualsiasi individuo è quello, ovviamente, di ottenere il massimo benessere per sé stesso e per la propria categoria di appartenenza.

Ma questo a livello pratico cosa significa? Per le imprese l’obiettivo è sostanzialmente quello di ottenere il massimo profitto dalle vendite; questo si traduce nel tentativo di fissare il più alto prezzo possibile per i propri prodotti (in economia: “surplus del produttore”). Per i consumatori, invece, si parla di “surplus del consumatore”, ovvero l’insieme dei benefici che rimangono al consumatore, una volta che ha acquistato il bene, tra cui il denaro risparmiato dall’acquisto (magari grazie ad un prezzo ridotto), la qualità del prodotto acquistato e altri.

La prevalenza di benefici per il consumatore piuttosto che per il produttore dipende, in generale, da ragioni legate al mercato, alle sue caratteristiche ed alla sua configurazione.

Per esempio, se il mercato è formato da una sola grande azienda che produce uno specifico bene, allora si parla di monopolio: i consumatori che necessitano di quel bene saranno costretti ad acquistarlo dall’unica azienda produttrice che, in assenza di concorrenza, sarà libera di fissare il massimo prezzo e quindi di ottenere il maggior beneficio. Dal punto di vista dei consumatori, quella del monopolio è la peggior forma di mercato: essendoci un’unica impresa, monopolista, a produrre e vendere quel bene, non ci sarà competizione né sui prezzi né sulla qualità e bisognerà accontentarsi dell’unica offerta disponibile sul mercato. Cambiando prospettiva, il monopolista, essendo l’unico a fornire quel bene, non si preoccuperà di contenere i prezzi o migliorare costantemente il prodotto, non essendoci altre aziende che “minacciano di fare meglio”.

Situazione diametralmente opposta è quella di un mercato in concorrenza perfetta. In questo caso, il mercato di uno specifico bene è formato da un numero elevato di compratori (clienti) e venditori (aziende produttrici), da prodotti omogenei (le diverse imprese vendono esattamente lo stesso prodotto) e da perfetta informazione, ovvero tutti gli attori conoscono perfettamente le caratteristiche e le tecnologie legate al prodotto. Come intuibile, la concorrenza perfetta si fonda su ipotesi teoriche, da molti viene definita una condizione irraggiungibile, ma è importante come concetto economico per un grande e trainante motivo: è possibile dimostrare come la concorrenza perfetta sia la condizione ideale per un mercato, perché permette di raggiungere il massimo livello di benessere collettivo. Ciò significa che, più un mercato si avvicina alla concorrenza perfetta, più il benessere collettivo, ovvero l’insieme dei benefici di produttori e consumatori, aumenta. Questa è la ragione per cui, seppur ideale e teorica, la concorrenza è una forma di mercato da inseguire: quando ci si allontana troppo (avvicinandosi a forme come il duopolio o il monopolio), occorre che qualche forza esterna al mercato intervenga per ristabilire una condizione il più vicino possibile a quella target di concorrenza perfetta. In generale si dicono “fallimenti di mercato” quelle situazioni in cui, appunto, il mercato presenta delle inefficienze che costringono il regolatore ad intervenire, e l’allontanamento dalla condizione di concorrenza perfetta è, inevitabilmente, una di quelle situazioni.

FALLIMENTI DI MERCATO

Ma facciamo un passo indietro: quando si verificano i fallimenti di mercato? Le premesse sono legate a motivazioni economiche o sociali. Quelle economiche si riferiscono all’esistenza di potere di mercato da parte di poche aziende (monopoli o oligopoli), presenza di esternalità o incompletezza dei mercati (informazioni asimmetriche tra i diversi player del mercato); le motivazioni sociali, invece, riguardano la distribuzione delle risorse (c’è chi è ricco e chi è povero) ed i fattori di merito.

Laddove esistano motivazioni economiche o sociali tali da far sì che i problemi e le inefficienze generate non possano essere risolte dal mercato stesso in autonomia, allora c’è bisogno che lo Stato intervenga.

INTERVENTI DELLO STATO

Gli interventi dello Stato sono, in generale, di due tipi. Il primo riguarda l’intervento di regolazione, in cui vengono fissati i prezzi per l’erogazione di alcuni servizi, solitamente ritenuti importanti se non essenziali: è il caso, ad esempio, dei prezzi di utilizzo delle autostrade piuttosto che le tasse universitarie. I settori coperti da tale regolazione sono quelli delle telecomunicazioni, dell’energia elettrica, del gas, acqua, raccolta rifiuti e trasporti (pubblici, aeroportuali, aerei, ferroviari e autostradali). Questo tipo di azione è caratterizzata dal fatto che lo Stato interviene in modo diretto, e lo fa prima che si verifichino i problemi: sono noti, infatti, i settori che porterebbero, naturalmente, a dinamiche di inefficienze e, prima che queste si verifichino, le autorità intervengono.

Il secondo tipo di interventi riguarda quelli antitrust: esistono appositi organismi pubblici che monitorano l’andamento dei mercati e che intervengono quando, lo stesso mercato, si dirige verso una soluzione lontana da quella di concorrenza. I motivi sono quelli di cui abbiamo precedentemente parlato, di tutela e garanzia verso il benessere collettivo, e di scongiura verso situazioni assimilabili a oligopoli e monopoli.

L’ANTITRUST E LE REGOLAZIONI DELLA CONCORRENZA

I motivi degli interventi e delle regolazioni antitrust sono principalmente legati ai comportamenti scorretti delle imprese, in termini di concorrenza, e riguardano indistintamente tutti i settori. Essendo il monopolio, infatti, la condizione che più avvantaggia l’impresa produttrice monopolista (a discapito di tutti gli altri), esistono atteggiamenti che le imprese possono adottare con l’obiettivo di combattere i concorrenti: quando questa lotta si tramuta in azioni che scorrettamente ostacolano la concorrenza, allora le autorità intervengono, con multe o, peggio, con la distruzione dell’impresa monopolista.

Con la parola “trust”, infatti, si intende un “accordo”, una coalizione tra aziende solitamente similari o complementari, che decidono di unirsi per motivi legati all’aumento di profitto o alla riduzione dei costi di produzione. Di per sé il trust, oltre che legale, è anche una pratica diffusa nei mercati di tutto il mondo: assume connotati illegali solo quando è finalizzato al controllo totale e monopolistico del mercato, ostacolando il normale corso della concorrenza. Il motivo, infatti, per cui le norme antitrust sono nate è legato alla cosiddetta “ondata di monopoli”, quel fenomeno storico registrato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso in cui molte imprese, sfruttando le economie di scala e cogliendo i repentini cambiamenti tecnologici, decisero di unirsi creando così dei grandi e potenti monopoli. In questo contesto, nel 1890 il Congresso degli stati Uniti d’America (su proposta del senatore dell’Ohio John Sherman) emanò la prima delle leggi antitrust, chiamata appunto Sherman Antitrust Act, concretamente applicata poi a partire dal 1911.

METODI ANTICONCORRENZIALI

Molti sono i metodi anticoncorrenziali tramite i quali le aziende possono agire.

Un esempio di pratica anticoncorrenziale riguarda quegli atteggiamenti che impediscono alle aziende concorrenti di poter esercitare la loro attività, sfruttando barriere strutturali indispensabili per il business. Basti pensare al mercato dei trasporti su rotaia: se lo stato non garantisse a tutte le aziende ferroviarie di poter utilizzare le rotaie per i propri treni, ma ci fosse un’unica impresa proprietaria di tali infrastrutture, il monopolio sarebbe in mano a quest’ultima ed il consumatore non avrebbe la possibilità di scegliere il miglior sevizio da acquistare, accontentandosi del prezzo e della qualità dell’unico disponibile sul mercato.

Un’altra pratica, controllata ed eventualmente condannata dagli organismi di regolazione, riguarda gli accordi taciti e non ufficiali tra le aziende concorrenti, che hanno l’obiettivo di ridurre la concorrenza ai danni del consumatore. Può succedere, infatti, che due grandi aziende che concorrono nello stesso settore si accordino per aumentare entrambe i prezzi dei prodotti: così facendo i consumatori non hanno altra possibilità se non quella di acquistare il prodotto al nuovo prezzo maggiorato, aumentando così i guadagni delle due aziende. Questa pratica però, come detto, distrugge la concorrenza ed i suoi effetti positivi, danneggiando il consumatore.

Altro atteggiamento controllato dall’autorità antitrust è quello delle acquisizioni di aziende concorrenti: mai come oggi è attuale il dibattito riguardo le big-tech, multinazionali come Facebook o Amazon che, come strada verso il successo, non si limitano ad emergere rispetto ai concorrenti, ma direttamente li acquisiscono. Questo tipo di azioni strategiche è consentito e storicamente adottato dal mercato, se non fosse che, a detta dei detrattori, i grandi colossi di oggi hanno mezzi estremamente più potenti, dal punto di vista finanziario, rispetto a tutti gli altri: questo permette loro di acquisire qualsiasi azienda decidano eliminandola così dalla lista dei concorrenti. È immediato comprendere come, alla lunga, una struttura di mercato di questo tipo porti alla sopravvivenza di poche aziende monopoliste che diventeranno sempre più grandi e sempre più potenti sulle decisioni che riguardano l’intero mercato.

Le fusioni tra aziende sono, storicamente parlando, il più famoso ambito di azione dell’autorità antitrust, se il mercato di riferimento è composto da poche aziende: aumentando la concentrazione nel mercato (riducendo quindi il numero di aziende) ci si avvicina alla condizione di monopolio, registrando così una perdita del benessere complessivo creato. La materia antitrust, quindi, è nata e si è storicamente affermata come sorveglianza e lotta ai colossi che, nelle varie ere degli ultimi secoli, hanno dominato i mercati mondiali divenendo unici ed incontrastati monopolisti. Il primo grande caso ha riguardato, nella seconda metà del milleottocento, l’American Tobacco Company, colosso statunitense del tabacco fin da subito divenuta nota come “Tobacco Trust”, ossia il “cartello del tabacco”. Nel tempo, l’azienda iniziò ad integrare tutti i player con cui collaborava e con cui competeva, dai coltivatori ai venditori al dettaglio, estendendo sempre di più i propri affari ed aumentando il profitto. Intervenne così nel 1908 il già citato Sherman Antitrust Act che, grazie al processo durato fino al 1911, riuscì a condannare l’American Tobacco Company arrivando ad ottenere la sua dissoluzione, così come anche quella della Standard Oil, multinazionale del petrolio di proprietà del magnate John Davison Rockefeller. Alla fine, l’American Tobacco venne divisa in molte diverse e più piccole aziende, e tali erano le dimensioni del monopolio che ci vollero otto mesi per elaborare il piano della sua dissoluzione e ristabilire così una condizione di concorrenza.

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