SEX WORK: NUOVE DOMANDE SUL MESTIERE PIÙ ANTICO DEL MONDO

di Irene Vendrame – Dottoressa in Philosophy, International and Economic Studies e vicedirettrice marketing di Lexacivis

Nessun italiano ha dubbi: il 2 giugno rappresenta una delle festività più patriottiche del nostro Paese, ovvero la Festa della Repubblica. Non tutti sanno però che, a livello internazionale, questa data ha anche un altro significato, ovvero è la Giornata Internazionale dei Sex Workers.

Sex work – lavoro sessuale – è un termine ombrello che raccoglie al suo interno tutte le professionalità legate al mondo del sesso, dalla prostituzione in senso stretto fino a quelle più borderline, come ad esempio la vendita delle proprie foto o video – che quindi non prevedono un rapporto sessuale vero e proprio – affiorate soprattutto negli ultimi anni, grazie alla diffusione via web.

Qual è il problema?

Quando, a gennaio di quest’anno, il Parlamento Europeo ha emanato la Risoluzione sulle strategie per la parità di genere, ha incluso nelle sue raccomandazioni anche le tutele dirette ai sex workers, i quali vengono marginalizzati non solo a livello sociale, ma anche e soprattutto a livello lavorativo, dove troppo spesso non riescono a far valere i propri diritti. La situazione è diventata ancora più critica a causa della recente crisi pandemica, che ha portato alla luce la situazione di difficoltà in cui versa questa categoria di lavoratori e lavoratrici – i quali molte volte non hanno accesso a sussidi ed aiuti dallo Stato a causa del loro status – ed ha reso la riflessione su questo tema ancora più urgente.

Come primo elemento è interessante notare come, nonostante queste raccomandazioni siano relative alle condizioni lavorative, la Risoluzione rimane ambigua circa il riconoscimento del sex work come lavoro a tutti gli effetti, associandolo inevitabilmente alla tratta di esseri umani. Come fa notare Zollino nel libro Sex work is work, se si vuole migliorare concretamente la vita lavorativa di queste persone, è necessario che venga loro riconosciuto lo status di veri e propri lavoratori – spesso lavoratori sfruttati. Per far questo, è utile cominciare pensare al lavoro sessuale come a un fenomeno complesso, non necessariamente riducibile alla tratta (nonostante sia bene tenere presente che essa ne costituisca una realtà consistente) ed includendo la possibilità che queste persone non siano solo vittime passive, ma che di fatto possiedono una agency, ovvero una capacità di agire ed autodeterminarsi.

La situazione in Italia

Nel mondo sono state adottate soluzioni legislative diverse per regolamentare o meno la prostituzione. Il modello della decriminalizzazione, adottato solo recentemente in Nuova Zelanda e in alcune parti dell’Australia è l’unico che riconosca il sex work al pari degli altri lavori e che preveda una collaborazione ed un accordo organizzazioni dei sex workers. Gli altri modelli invece tendono a reprimere attraverso varie modalità la prostituzione: in alcuni casi punendo indistintamente vendita, acquisto e sfruttamento del lavoro sessuale (proibizionismo), in altri regolamentandolo senza però equipararlo alle altre professioni (regolamentarismo e neo-regolamentarismo), in altri ancora mantenendo legale la prostituzione, ma trattando il/la sex worker come vittima (abolizionismo). L’Italia rientra in quest’ultimo caso grazie alla legge n. 75 del 20 febbraio 1958, soprannominata legge Merlin, dal cognome della senatrice Lina Merlin che, durante il Secondo Dopoguerra si è battuta per la chiusura dei bordelli, considerati luoghi di sfruttamento e di degrado della donna. La legge n. 75 infatti, nonostante non vieti l’attività della prostituzione in sé, non la riconosce come professione ed ha l’intento di ridurne considerevolmente la diffusione.

Il testo della legge si divide in tre capi. Il primo capo riguarda la prostituzione in senso stretto: abolisce le case chiuse e punisce chiunque sfrutti la prostituzione altrui o induca una persona alla prostituzione; se a compiere questi reati è qualcuno che ha un’influenza sulla persona – in quanto per esempio genitore, tutore o convivente – o lo fa attraverso l’uso della forza e l’intimidazione, la pena è raddoppiata. L’adescamento in luoghi aperti al pubblico è penalizzato con una sanzione amministrativa; tuttavia, se la persona è in possesso di regolari documenti di identificazione, è vietato accompagnarla all’ufficio di pubblica sicurezza, registrarla o imporle la visita sanitaria.

Il secondo capo prevede che il Ministero dell’Interno promuova la nascita e la diffusione di istituti di rieducazione, dove le donne che cessano di essere prostitute possono trovare rifugio, protezione e sostegno. Il terzo capo, infine, prevede la nascita di un corpo di polizia femminile, che si occuperebbe di sostituire la polizia nelle questioni inerenti al mantenimento del buon costume e nella prevenzione dei reati di prostituzione e commessi dai minori.

I punti critici

Una delle criticità più dibattute riguarda il primo capo, con particolare riferimento al favoreggiamento della prostituzione: attualmente l’interpretazione estensiva dell’art. 3 comma 3 ha fatto in modo che chiunque tolleri, in qualsiasi modo, la presenza di prostitute ricada nell’ambito di favoreggiamento della prostituzione. In termini più pratici, potrebbero rientrare in questa categoria anche un tassista che accompagni una prostituta da un cliente o il proprietario di un appartamento che lo ceda in affitto a una persona che pratica la prostituzione. Questo ha fatto sì che questa attività venisse ancor più ghettizzata e si protendesse maggiormente verso circoli malavitosi, nei fatti peggiorando le condizioni di lavoro e di sicurezza di chi la pratica.

Un’altra questione critica, che si sposta dal piano puramente giurisprudenziale anche a quello ideologico, riguarda invece il capo II, ovvero la parte riguardante la rieducazione. Infatti, si dà per scontato che le persone che esercitano la prostituzione lo facciano perché costrette o perché in qualche modo vittime degli eventi, escludendo a priori la possibilità che una persona, al contrario, decida consciamente di intraprendere questo tipo di percorso. Questa sezione della norma è stata aspramente criticata da alcune voci femministe, perché palesa un impianto ideologicamente definito e paternalistico della norma stessa. Inoltre, non si parla per nulla delle nuove forme di lavoro sessuale, che pur non rientrando nell’accezione tipica di prostituzione, comunque esistono e si trovano ora in balia di un vuoto normativo.

Alla luce di queste considerazioni e di quelle espresse dall’Unione Europea, è lecito chiedersi se questa norma non andrebbe quantomeno rivista. È molto facile in questo frangente cadere nella lotta ideologica e trincerarsi nelle proprie posizioni: ciò che andrebbe sempre tenuto presente è che si sta parlando di un numero di persone stimato tra le 75.000 e 120.000 (stime dell’Associazione Giovanni XXIII), che al momento non sono tutelate in alcun modo nel lavoro che svolgono e che non hanno alcun riconoscimento sociale. Attualmente è difficile trovare delle risposte, ma è opportuno che questo diventi una questione di interesse e dibattito pubblico, perché, al di là della pruderie è un problema che riguarda anche il nostro Paese.

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