di Irene Vendrame – Dottoressa in Philosophy, International and Economic Studies e Redattrice di Lexacivis
Il gender pay gap
Tra le file dei detrattori del politically correct e delle lotte per i diritti delle minoranze, di solito trova spazio anche chi considera superflue le proteste per l’uguaglianza di genere. Non c’è nulla per cui protestare – affermano – la parità, in Italia, ormai c’è già da anni: le donne possono fare tutto, come gli uomini. Quando si prova a far loro notare che esistono vari ambiti in cui il genere femminile si trova in una situazione di svantaggio, primo fra tutti quello lavorativo, il dato che viene sfoderato in risposta (solitamente con espressione beffarda) è quello del gender pay gap: 4,7 in Italia, contro 14,1 della media europea (dati Eurostat). In questi termini, dunque, non saremmo in una situazione così grave; tuttavia, è importante notare che in questa statistica non si tiene conto della quantità di ore lavorate complessivamente e del tasso d’occupazione. Questi elementi sono invece inclusi, insieme alla retribuzione oraria, nel gender overall earnigs gap, che indica lo scarto tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini. Per l’Italia il valore di questa differenza sale al 43,0, facendoci guadagnare il podio (in negativo) dopo Paesi Bassi e Austria.
La nostra legislazione
La necessità di migliorare la situazione lavorativa delle donne, non solo in termini di retribuzione, ma anche di inclusione nelle decisioni aziendali, avanzamento di carriera e tipologie di contratto, era stata captata già più di 15 anni fa. Nel maggio del 2006, infatti, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, il quale ha permesso da un lato di codificare a livello normativo diverse regole per impedire la discriminazione di genere da parte del datore di lavoro. Dall’altro lato ha istituito organi e figure che vigilassero sull’applicazione delle stesse, che producessero dati rispetto a queste tematiche e che fossero promotori di nuove iniziative, tanto a livello nazionale quanto sul territorio.
Il 13 ottobre scorso è stata presentata alla Camera una proposta di legge che integra il Codice delle pari opportunità, rendendolo più efficace, nell’intento di velocizzare la riduzione del divario retributivo di genere complessivo e di portare alla luce ulteriori problemi relativi alla discriminazione di genere. Approvata all’unanimità, si aspetta ora il passaggio in Senato.
La nuova legge punto per punto
- Il Codice delle pari opportunità prevedeva che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali presentasse almeno ogni due anni il report con i risultati del monitoraggio sull’applicazione della legislazione: l’art. 1 della proposta di legge sposta questa responsabilità direttamente al consigliere o alla consigliera nazionale per le pari opportunità, una figura istituita dal Codice nel 2006, non solo a livello nazionale, ma anche regionale e provinciale. Essa già aveva il compito di rilevare su diversi livelli territoriali disparità di genere nel trattamento lavorativo e di promuovere azioni positive.
- Il secondo articolo della proposta di legge integra l’art. 25 del Codice, il quale definisce cosa si intenda per discriminazione diretta e discriminazione indiretta. In particolare, viene specificato ulteriormente quali siano i casi di discriminazione indiretta: non si tratta di accanimento esplicito sulla lavoratrice in quanto donna, bensì di pratiche di organizzazione aziendali che hanno come effetto quello di mettere in svantaggio la donna rispetto agli altri lavoratori, di limitarne la partecipazione all’interno dell’azienda e l’accesso ai meccanismi di avanzamento di carriera.
- Se il Codice per le pari opportunità imponeva a tutte le aziende con più di 100 dipendenti di presentare il report sulla situazione del personale maschile e femminile – in modo tale da monitorarne assunzioni, scatti di carriera e retribuazione – l’art. 3 della proposta di legge abbassa la soglia a 50 dipendenti.
- L’art. 4 introduce la “certificazione della parità di genere”, a cui potranno accedere le aziende con oltre 50 dipendenti, per “attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”. Le imprese che riusciranno ad ottenere questa certificazione avranno diritto a sgravi fiscali fino a 50.000 di euro annui (premialità di parità introdotta dall’art. 5)
- L’art. 6 impone che negli organi delle società pubbliche non quotate, il genere meno rappresentato deve ottenere almeno due quinti degli amministratori eletti, favorendo così l’equilibrio di genere.
Prospettive future
Appianare le differenze che sussistono tra uomini e donne nel mondo del lavoro rimane di centrale importanza. È auspicabile che la proposta di legge venga approvata anche in Senato e arrivi ad essere efficace il prima possibile, in modo tale da poter risolvere il problema di disparità di genere in ambito lavorativo. Gli interventi legislativi concreti così come le affirmative actions hanno dimostrato di portare a risultati positivi tangibili, non solo nel mondo del lavoro ma anche, per esempio, in ambito politico (per approfondire si veda Una parità ambigua di Marilisa D’amico, Raffaello Cortina Editore, 2020), dunque non resta che attuarli. L’ottenimento della parità di genere in ogni aspetto della nostra società non porta solo a benefici economici, produttività e progresso, ma è imprescindibile soprattutto per costituire una democrazia solida ed effettiva.