GIUSTIZIA RIPARATIVA E MEDIAZIONE: QUANDO VITTIMA E CARNEFICE SIEDONO ALLO STESSO TAVOLO

di Gloria Vindigni – Dottoressa in Giurisprudenza e redattrice di Lexacivis

Siamo abituati a pensare alla giustizia come un sistema in cui vi è chi sbaglia e chi punisce (o dovrebbe punire), un sistema dove chi commette un illecito deve subire una pena proporzionata alla sofferenza causata: questo modello di giustizia viene definito retributivo.

Esso è presente in diverse culture fin dall’antichità: basti pensare al codice di Hammurabi che sanciva la Legge del taglione ovvero la possibilità per chi fosse stato offeso di vendicare il torto subito nella stessa maniera.

Il nostro ordinamento concepisce la pena come una sanzione volta a condannare il reo e rendere giustizia alla vittima o ai suoi cari, ma la pena svolge anche una funzione preventiva come ribadito nel diritto romano e come scriveva Beccaria in Delitti e delle pene “non è tormentare e affliggere un essere sensibile ma d’impedire al reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini, e di rimuovere gli altri dal farne uguali”.

Un ulteriore scopo della pena è quello di rieducare il condannato e favorire il suo reinserimento nella società, tale obiettivo è sancito dalla nostra Costituzione all’articolo 27 comma 3 e dall’articolo 4 della Carta europea dei diritti dell’uomo; secondo queste norme infatti la pena deve conservare il senso di umanità.

Tuttavia la realtà del nostro Paese non è quella che le norme citate auspicherebbero: la gran parte dei detenuti una volta scontata la pena ritorna a delinquere e fatica a essere reinserita nella società, le condizioni detentive non rispettano i criteri imposti dalle norme internazionali tant’è che l’Italia è stata ripetutamente condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver violato l’articolo 3 CEDU (Cfr. Torreggiani e altri c. Italia def. 26 maggio 2013 e M. Viola c. Italia ricorso n. 77633/16 sentenza del 2019) e, in ultimo le pene irrogate non dissuadono la collettività dal commettere reato.

Il modello retributivo è incentrato sull’accertamento del reato, la riconducibilità della commissione del reato ad un soggetto specifico e la condanna di quest’ultimo, ma come delineato brevemente sopra questo modello presenta fragilità e lacune difficili da colmare.

All’interno di un sistema basato sulla sanzionabilità del reato è difficile che il reo trovi spazio per l’inclusione, l’accoglimento e la riconciliazione con la società ecco allora che pian piano si fanno strada modelli di giustizia complementari come quello riparativo.

In particolare,  la giustizia riparatrice viene definita dai Basic principles on the use of restorative justice programmas in criminal metters e dalla Direttiva  29/2012/UE come “qualunque procedimento in cui la vittima e il reo partecipano attivamente alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito attraverso la mediazione, la conciliazione, i dialoghi di gruppo parentali e i consigli commisurativi”; recentemente il Consiglio d’Europa, attraverso la raccomandazione del 3 ottobre 2018, l’ha definita come “qualunque procedimento in cui la vittima e il reo vogliono risolvere i conflitti con l’aiuto di un terzo imparziale”.

Essa è regolamentata da fonti internazionali ma all’interno del nostro ordinamento, pur richiamando il rispetto di diversi principi costituzionali quali il principio solidarista, il principio personalista, il principio di uguaglianza e quello di sussidiarietà, pur essendo applicata in via amministrativa soprattutto per quel che riguarda la giustizia minorile, non trova una definizione.

Il fulcro della giustizia riparativa è il legame tra il reo e la vittima, tra il reo e la collettività; il reato secondo il modello riparativo non è la violazione di una norma penale ma è la violazione dei diritti individuali dell’altro, la violazione del patto di convivenza pacifica.

La giustizia riparativa considera il reato dal punto di vista socio-psicologico e non dal punto di vista giuridico come invece avviene nel modello retributivo; la responsabilità è caratterizzata da un progetto volto a ricucire i rapporti con la vittima e con la società nonostante il dolore e i pregiudizi, da una parte e, il processo e la pena dall’altra; la vittima non è solo la persona titolare del bene offeso, la parte processuale con pretese economiche ma soprattutto la persona che patisce dolore.

Pilastri di questo paradigma sono dunque:

  1. Il danno e i bisogni della vittima;
  2. La responsabilizzazione del reo e l’obbligo a riparare;
  3. Il coinvolgimento delle parti alla risoluzione del conflitto.

Analizzando singolarmente ogni pilastro del modello riparativo, per ciò che riguarda il primo punto, si può affermare come il perno ruoti intorno a chi soffre e a cosa si può fare per riparare il danno e non chi deve essere punito e con quali sanzioni.

 Nel nostro sistema penale la riparazione non ha un unico significato infatti, viene intesa come risarcimento o come attività socialmente utile. Ma nel sistema ristorativo la riparazione è un insieme di azioni volte al futuro e a rintegrare socialmente il reo e la vittima.

I programmi della giustizia ristorativa sono caratterizzati da:

  • Partecipazione della vittima e del reo a percorsi di dialogo che restituiscano la dignità;
  • Riconoscimento della vittima e delle emozioni causate dall’offesa;
  • Autoresponsabilizzazione del reo: il reo rielabora l’accaduto sentendo un senso di responsabilità nei confronti dell’altro con la volontà di riparare;
  • Coinvolgimento della società in cui vivono il reo e la vittima in modo tale che si crei un nuovo livello di sicurezza e non una volontà di repressione;
  • Consenso informato, consapevole, spontaneo e revocabile delle parti;
  • Mediazione protetta e divieto di diffondere i contenuti dell’incontro in modo tale da creare un clima di confidenzialità;
  • Volontà delle parti di voler raggiungere l’accordo nel rispetto dei criteri di ragionevolezza e proporzione.

La Direttiva 2012/29/UE stabilisce che è possibile accedere a questi programmi in qualsiasi stato e grado del procedimento. Ciononostante nel nostro Paese, che ha attuato la Direttiva con il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212 è difficile dare una completa attuazione a tale normativa e soprattutto ai percorsi sopracitati.

Sembrerebbe inoltre che è possibile applicare il modello riparativo ad ogni tipo di reato ma l’articolo 48 della Convenzione di Istanbul vieta di far ricorso obbligatorio a strumenti di conciliazione e la mediazione prevista nella messa alla prova è applicabile solo per i reati che prevedono una pena non superiore a quattro anni.

Il modello riparativo è improponibile e impraticabile per alcune condotte di reato come violenze contro i minori o le donne, omicidi ecc. o condotte in cui il conflitto rende il rapporto ancora più disuguale.

Strumento fondamentale della giustizia riparativa come abbiamo accennato sopra è la mediazione ossia l’incontro tra il reo e la vittima in presenza di un terzo, estraneo ed imparziale, il mediatore; durante l’incontro le parti hanno la possibilità di confrontarsi sul reato e la relativa riparazione.

All’interno del nostro ordinamento essa è regolata da diverse disposizioni: l’art. 24 del decreto legislativo 274/2000, art. 90 bis comma 1 lettera n) c.p.p., art. 464 bis comma 4 lettera c), ma soprattutto il decreto legislativo n. 121 del 2018 che disciplina l’esecuzione della pena per i minorenni.

Non rientrano, invece, nel modello riparativo le disposizioni relative alla condanna ai lavori di pubblica utilità, al regime di semilibertà con possibilità di svolgere lavori all’esterno del carcere né tantomeno il lavoro sostitutivo di pena pecuniaria perché sono tutte disposizioni che richiedono l’intervento del magistrato, escludendo così la volontarietà delle parti che caratterizza la riparazione.

I mediatori pur avendo conoscenze in ambito giuridico e psicologico devono assistere all’incontro di mediazione senza dare alcun tipo di giudizio, favorendo in questo modo un percorso relazionale, educativo che abbia risvolti giuridici.

I mediatori devono dunque favorire la comunicazione tra le parti e stimolare in loro la ricerca di risoluzioni condivise al fine di riconoscere la responsabilità del reato commesso da un lato e la volontà non guardare al passato dall’altro, restituendo alle parti la dignità perduta a causa del conflitto.

La figura del mediatore, ad oggi, non è ben definita tuttavia il percorso formativo prevede una formazione teorica sulla mediazione e la giustizia riparativa, una formazione pratica sulla gestione del conflitto, una formazione sugli aspetti giuridici- istituzionali e criminologici della giustizia riparativa e una formazione su come elaborare ed utilizzare il modello operativo.

Tale percorso conduce a formulare delle osservazioni: gli operatori devono essere formati nell’ambito degli studi giuridici, la formazione non deve riguardare solo discipline extra giuridiche e in ultimo è opportuno istituire un corso ad hoc che veda la collaborazione del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Quanto scritto in questi paragrafi hanno come unico intento quello di far riflettere su un modello di giustizia che tenta di ricucire ciò che è stato strappato, non solo tra la vittima e il carnefice ma anche tra il reo e la società.

Siamo davvero pronti ad una giustizia all’insegna dell’umanità, dell’incontro, dell’ascolto e del perdono?

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